martes, 31 de marzo de 2015

Universalia nº 39 – Los Estudios Generales, un espacio de oportunidad académica

Las palabras de la Profa. Isabel Rodríguez dan inicio a la Edición n° 39 de la Revista Universalia, publicación periódica realizada por el Decanato de Estudios Generales de la Universidad Simón Bolívar, en donde se pueden encontrar nuevas muestras de la profunda reflexión humanística que los Estudios Generales son capaces de inducir en nosotros los estudiantes.

Al inicio se encuentran las intervenciones con las que mis compañeros, Luis Contreras y Ricardo Santos, y yo dimos el primer paso hacia lo que podría ser una experiencia estudiantil dentro de la Red Internacional De Estudios Generales, aprovechando la oportunidad que se nos brindó de participar en la apertura del VI Simposio de la RIDEG, celebrado en noviembre de 2014 en nuestra USB.

He de decir que, una vez más, he sido acompañado por voces críticas capaces de mirar desde otra perspectiva nuestra realidad, y que en esta ocasión además de haber disfrutado de su compañía durante el evento, hemos podido intercambiar nuestra propia forma de entender nuestro entorno y nuestro poder de originar los cambios que queremos, con todos los invitados internacionales, de quienes nos llevamos el mejor de los recuerdos.

La revista cuenta también con obras de arte urbano, realizadas por Charles Levalet en las calles parisinas.

Está disponible aquí


sábado, 3 de enero de 2015

La migrazione: più al di lá della questione geografica

Nel mese di ottobre 2014, ho pubblicato la versione originale (in spagnolo) di questo lavoro. Ma, visto che la migrazione é un fenomeno che non può essere limitato né a una sola regione né a una sola lingua, ho voluto fare la traduzione in italiano. Anche perchè sono italo-venezuelano, e mi sembrava giusto poter condividere questo con i miei cari in Italia.

É un lavoro che ho fatto sul migrante come personaggio centrale del fenomeno migratorio, con riferenze artistiche (letterarie, cinematografiche), e posmoderne, nel corso "Para leer la postmodernidad", con la Prof. Gina Saraceni (USB).

I – Tanto per cominciare

La societá occidentale, con la filosofía del modernismo, si abituó ad avere una visione teleologica della vita, ogni sentiero porta alla pienezza come unica finalitá. Quel livello di soddisfazione, tanto nell’ambito esterno quanto nell’interno dell’essere umano, solo si puó raggiungere attraverso uno dei grandi argomenti, che secondo Jean-François Lyotard in “Il postmodernismo (spiegato ai bambini)” (1986) sono: il cristiano, il marxista, l’illuminista ed il capitalista. In modo conforme a ciascuna di loro, é mediante la buona fede, il comune benessere, la supremazia dell’uso della ragione o del lavoro, che si puó arrivare ad uno stato incomparabile di felicitá e di giubilo con se stesso.  Eppure, lo stesso Lyotard, siccome il filosofo argentino José Feinmann1 quando utilizzano questo stato come riferimento, fanno allusione al fatto che questo punto di vista sulla vita, condotta verso un obiettivo finale,  é nato nelle societá più sviluppate, nelle comunitá che possiedono la maggioranza delle conoscenze e quindi con un grande potere sulle masse, per quanto non risponde alla dinamica reale delle relazioni umane e causa l’occultamento delle particolaritá, le carenze, le differenze e le fratture che si manifestano negli spazi modernisti. Tutto quello che non si poteva inquadrare negli schemi stabiliti dal potere e i suoi meccanismi di controllo era tenuto da parte, tanto dalle rappresentazioni artistiche quanto dagli studi realizzati dalle diverse aree della conoscenza.
In difesa di quella alteritá, di quell’altra prospettiva, nacque il postmodernismo che sorge dalla necessitá di prendere in considerazione e di risaltare l’esistenza di tutto quello che é diverso in contrapposizione all’esclusione esistente. Per quello, la tendenza postmodernista propone la molteplicitá di storie contro quell’argomento unico o grande argomento, ed in alcuni casi, propone anche la decostruzione del testo, perfino degli schemi del pensiero, tale come oggi sono conosciuti. Feinmann si riferisce al termine caleidoscopismo ed illustra questa maniera di leggere la storia da angoli diversi citando Gianni Vattimo, filosofo italiano che afferma che “la storia é come il dialetto”, in allusione all’esistenza di molti dialetti in Italia, fatto dal quale viene fuori la possibilitá di guardare, e soprattutto di rappresentare, la realtá stessa e gli stessi fatti della storia da diverse forme, da diversi punti di vista. Non esiste piú un’unica maniera di raccontare la storia, ora c’è una pluralitá di culture abbastanza notoria, un collage formato da tutte quelle voci che sono ugualmente capaci di raccontarla.
Allora, diventa naturale che in mezzo all’esaltazione delle minoranze che storicamente non sono state riconosciute, si cominci a mettere in evidenza la vita di tutti coloro che lasciano una loro societá stabilita per incorporarsi ad un’altra dove stranamente riuscirano ad avere un vero senso di appartenenza: i migranti. Sia come conseguenza della colonizzazione europea, sia per la fortissima crisi economica provocata dalle due Guerre Mondiali, o perfino per le note discordie tra i paesi dello stesso continente, é un fatto che  America –e soprattutto l’America Latina- puó essere considerata, per eccellenza, il palcoscenico favorito degli influssi migratori in vari periodi dell’era moderna e contemporanea, ragione per cui é interessante approfondire in situ su questo argomento. 
In quest’epoca, in cui i mezzi di comunicazione e trasporto fanno della migrazione un fenomeno comune e quotidiano, ha molto senso riflettere sul processo di abbandonare la propria terra, sulle fratture nella parte piú profonda dell’essere umano, sull’adattazione e la nostalgia che si presentano negli individui in continuo movimento. Risulta particolarmente interessante introdursi nel tessuto sociale, approfondire nell’irreversibilità, di questi processi e le loro conseguenze che si manifestano in coloro che li soffrono.


II – L’illusione dello sconosciuto

"La realtá e la miseria mi opprimono, eppure ancora sogno”

- Émile Zola


Che situazioni, che fatti, possono vincere il legame di un essere umano col suo paese di nascita? Possono essere cosí forti le avversitá che la propia terra presenta che si acquista la capacitá di abbandonare tutto quanto si conosce per avventurarsi nella ricerca di un futuro migliore? Ovviando i casi in cui lo spostamento é conseguenza del Desiderio di espandere i propri limiti, siano questi intellettuali (caso di professori, studenti e professionisti che partecipano in programmi di scambio con altri paesi), ben siano politiche (desiderio dei grandi imperatori e conquistatori della storia), è una realtà innegabile che la migrazione appare di solito come l’unica scelta possibile quando la vita é troppo difficile nel luogo di nascita ed esiste nel pensiero l’idea, fissa o come semplice ipotesi, che in un altro luogo si potrebbe vivere meglio.
Alcune volte le durissime limitazioni politiche, proprie di regimi autoritari ed estremisti, sono quelle che, ignorando le proteste e manifestazioni pacifiche di resistenza civile, causano la partenza dei liberii diversi- finché arrivano in un posto dove possono vivere ed esprimersi completamente. La corruzione, lo scialo delle autoritá e la loro complicità con i criminali organizzati, o la noncuranza dei cittadini comuni possono generare sensazione di abbandono, di solitudine, nei membri di una determinata società, motivo per il quale si sentono estranei al loro intorno e decidono di andarsene. Altre volte lo sradicamento obbedisce alle necessità più basiche dell’essere umano: soddisfare della propria fame e quella della famiglia, sopravvivere ed abitare in un posto con le minime condizioni igieniche, che potrebbero essere introvabili in un paese vittima di disastri naturali, di periodi di grande crisi economica o di conflitti armati importanti. Quello che é certo é che elencare le cause che portano una persona ad allontanarsi dal proprio paese meriterebbe un trattamento particolare, più dettagliato, complesso e quindi, più sviluppato. Eppure si puó distinguere un elemento comune nello spirito, nel pensiero, di ogni emigrante e non é altro che l’idea del meglio in un’altra parte, del lavoro per tutti, i buoni cibi, il denaro, la libertà e l’indipendenza sono tutti riuniti al di lá, fuori dalle proprie frontiere e mai a portata di mano, per quanto, la sola idea di potersi incontrare di fronte a tutte queste buone cose, giustifica il fatto di abbandonare tutto quanto é conosciuto, parte della propria vita, per partire.
Il problema viene quando tanto comune é il fenomeno migratorio quanto vaga e sbagliata la concezione del luogo di destino, poiché si origina nell’individuo una aspettativa esagerata, quel posto nuovo sará il posto dove potrá vivere pienamente, anche se l’unico indizio per pensarla così é la testimonianza di un terzo che é tornato dopo aver raggiunto i suoi obiettivi. Spesso i racconti sfavorevoli sono sconosciuti, disprezzati ed omessi, perchè questi non nutrono la speranza che rappresenta l’illusione dell’altro luogo, non contribuiscono con il grave bisogno che ogni marginato ha di credere in un mondo migliore, malgrado non lo conosca.
Quando il protagonista di Paso del Norte (1953), di Juan Rulfo, rivela a suo padre i motivi che lo inducono a cercare il Nord:
Pos a ganar dinero. Ya ve usté, el Carmelo volvió rico, trajo hasta un gramófono y cobra la música a cinco centavos. De a parejo, desde un danzón hasta la Anderson esa que canta canciones tristes; de a todo, por igual, y gana su buen dinerito y hasta hacen cola pa oír. Así que usté ve; no hay más que ir y volver. Por eso me voy.(A)


(A)    N.d.T: Usando un linguaggio popolare, il personaggio dice che se ne va per guadagnare più denaro. Parla dell’esperienza di Carmelo che, rientrato, ha portato con sé un gramofono con il quale ora puó avere piú denaro.

Un altro esempio si trova nel documentario “Los Invisibles2, dove si domanda a una famiglia dell’America centrale come credono loro che siano gli Stati Uniti e rispondono che la loro immagine di questo paese é quella di una fotografía del momento quando la bambina della casa é andata in vacanze a Seaworld, un parco acquatico in cui si rappresentano spettacoli con i delfini e le balene, e quella immagine del “bello” e del “divertente” molte volte basta perché la decisione di trasferirsi sia presa, anche se coinvolge delle rotture e fratture non solo negli aspetti fondamentali della propria identitá ma nella maniera di capire e vivere la vita. “L’immaginazione é diventata un fatto sociale e collettivo” 3, e non prevale piú la realtá sul luogo di destino ma quella logica quotidiana, basata su tutte le speranze e racconti colloquiali dei concittadini anche loro migranti. Come dice il complesso Calle 13 nella sua canzone “Pa’l Norte”, per un emigrante, “el camino es lo de menos, lo importante es llegarlo(B).

(B)    N.d.T: L’importante non é la strada che si percorre, ma il fatto di arrivare.


III – Fisura, strappamento, frammentazione

“(Andarsene) é un sogno di terrore che converte le nostre vite in incubi, é una delle affermazioni degli intervistati nel documentario “Los Invisibles”, in cui si evidenzia l’altra faccia della speranza: quella delle dure e disumane conseguenze. Prima della partenza, l’individuo ha sentimenti a confronto dato che l’abbandono della propria casa è tanto rilevante dal punto di vista emotivo quanto la speranza che incarna il luogo di destino, peró, grazie all’innocenza causata dalla disinformazione summenzionata, è che questa illusione riesce a sovrapporsi. Il migrante parte “senza bussola, senza tempo, senza agenda, senza trasporto” e, frequentemente, senza documenti che lo identifichino e gli diano lo status giuridico di cittadino, o semplicemente quello di essere umano. È allora quando il processo di sradicamento della sua umanitá, attraverso la distruzione o la severa alterazione degli elementi che la costituiscono, cioé: l’identità, la cultura e la lingua.
Nella fase dello spostamento per se, in quanto prima fase del proceso migratorio, è che si modifica l’identità dato che, come si puó vedere nel documentario sopraccittato ed in tante altre rappresentazioni artistiche di ogni livello come la canzone del gruppo Calle 13 o il racconto “Paso del Norte”, il migrante illegale diventa un intruso senza passaporto, un non identificato, un diverso che si presume delinquente, e quindi si trova sottomesso alla violenza non solo dei meccanismi di controllo del paese di destino, ma delle bande criminali organizzate che si approfittano di questa condizione e identificano nel migrante la loro vittima prediletta. È perseguitato, torturato, maltrattato, e perfino assassinato senza che rimanga di lui alcuna traccia, visto che non existe un elenco ufficiale dove sia iscritto dopo aver perduto qualsiasi soggezione di una determinata nazione per non avere dei documenti che lo identifichino come cittadino, dunque: è invisibile mentre vive, ed è uno scomparso, un mancante, quando muore. Nel migliore dei casi, riesce a mettersi in salvo da questi comportamenti ostili in cambio di perdere completamente la sua umanitá e servirsi di mezzi assolutamente disumani, animaleschi – come muoversi di nascosto sotto terra come gli scoiattoli- per andare all’altra parte della frontiera, senza sapere nemmeno cosa l’aspetta. Un esempio di questo si trova nel racconto “Los gallinazos sin plumas” (1995) di Julio Ramón Ribeyro, nel quale due bambini famelici che hanno acquisito atteggiamenti animaleschi dovuti alle condizioni in cui sono stati cresciuti, fuggono feriti e malati alla grande mascella divoratrice che è la città nel giorno, sconosciuta da loro e dove loro non esistono.     
Attraversato il muro, sia fisico o simbolico, si produce lo scontro culturale tra chi ha perduto la sua condizione di cittadino e la nuova società con le sue tradizioni e i suoi propri mecanismi di controllo, che naturalmente sará riluttante ad accettarlo appena arrivato. L’immigrante, ancora legato alla cultura della sua terra natale, é in svantaggio rispetto ai suoi vicini dato che, non avendo modo di esercitare i suoi costumi e tentando ancora di adattarsi al nuovo luogo, non puó essere considerato membro di pieno diritto nella communitá in cui ora  si trova. Inizialmente viene considerato manodopera –a buon mercato- e assunto per fare i lavori più pesanti e peggio retribuiti perchè non ha nessuna qualificazione legale e la sua assenza d’identitá gli impedisce richiedere i suoi diritti che d’altra forma sarebbero giusti. Si produce l’incontro con altri inmigrati e si stabiliscono piccoli circoli dove si simulano alcuni aspetti della cultura perduta, motivo per il quale non si riesce ad eliminare mai la differenza che esiste rispetto alla nuova società. Il migrante funziona come un pezzo insignificante dentro il gran mecanismo che rappresenta la metropoli di destino, é sostituibile e, come il resto di coloro che sono nelle sue stesse condizioni, é irrilevante tutto quello che riguarda la sua identità.
Mentre il gran macchinario continui a funzionare, il gruppo inmigrante solo costituisce una massa indeterminata e dedicata interamente al lavoro, che viene monitorata (“quella gente mai la smette di guardarci nel lavoro”) e sostituita senza alcun riparo (“hanno messo un altro nel mio posto per non fermare il lavoro”), entrambe le frasi tratte da “La noche que volvimos a ser gente” (1970) di José Luis González, dove si esprime l’idea che l’unica forma in cui gli inmigrati possono recuperare la loro umanità è attraverso il fallimento di qualcuno dei meccanismi della società dove sono iscritti; in quel caso, è l’assenza di energia elettrica quello che occasiona la riunione di tutti i portoricani sui tetti degli edifici, in modo che questi possono ricondividere la loro música, le loro bibite, il fatto di essere insieme coi loro paesani e possono apprezzare insieme una cosa tanto semplice come guardare le stelle che brillano nel cielo, recuperando cosí la loro condizione umana che avevano già perduto, o che li era stata tolta.  
Uno dei sintomi di questo smembramento della cultura e l’identità è la modificazione della lingua. L’immigrante, forzosamente, deve imparare ad esprimersi nei termini che utilizza la società dove si trova, perciò risulta naturale che nascano delle lingue ibride come lo spanglish, l’itañol, fra tante altre in cui coesistono i modi grammaticali e le parole della lingua materna con gli elementi della nuova lingua. Il migrante modifica il suo lessico e con questo fatto la sua forma di descrivere e di scrivere il mondo si trasforma completamente, passa dall’essere una mescolanza di culture che, col tempo, sarà impossibile dividere nei suoi componenti originali.


IV – Il ritorno impossibile e i segni indelebili

"È inutile rinvenire su ciò che si è stato e non si è più "

- Frédéric Chopin



La nostalgia è un sentimento inevitabile quando si è lontano dalla propria patria, al di sopra di tutte le simulazioni che possano ricrearsi nei diversi luoghi di transito dove l’immigrante si trovi. Il fatto di sapersi circondato da gente che ha condiviso le stesse esperienze, che è stata cresciuta nelle stesse strade e che ha mangiato gli stessi cibi, il fatto di essere a proprio agio coi costumi ed i luoghi comuni, è necessario per colui che si è allontanato. Il problema è che tutti quegli elementi ancorati allo spirito del migrante si modificano con il tempo e lo spazio ricordato non corresponde con lo spazio esistente nel momento di un eventuale ritorno, cioè, la città in cui si è nati non rimane inalterata col passare degli anni, ma si trasforma continuamente con la costruzione di nuovi edifici e percorsi, con l’arrivo di estranei che impostano simulazioni delle loro proprie culture dappertutto, e con le impronte degli episodi alti e bassi sia in politica che in economia, che senza dubbio lasciano profondi segni in ogni popolo.
Allora, fino che punto è possibile ritornare al paese d’origine una volta che si è andati via? L’evoluzione inesorabile delle società fa che il desiderio di tornare alla terra perduta, la necessità di sanare la condizione di orfano caratteristica dei migranti, sia irraggiungibile. Nel film Nuovo Cinema Paradiso (1988), regia di Giuseppe Tornatore, si racconta la storia di Totò, che se n’è andato da trent’anni da Giancaldo (Sicilia), e riceve via telefonica la triste notizia della morte di Alfredo, chi era stato il suo mentore. Lungo questo film, il protagonista, dopo aver finito la funesta telefonata, comincia a percorrere il paese che conserva nella sua memoria, con gli aneddoti che hanno scandito la sua vita e il suo legame con Alfredo, per poi decidere di ritornare ed assistere al funerale, trovandosi di fronte a un Giancaldo che è drasticamente cambiato rispetto a quello dei suoi ricordi, in cui gli antichi luoghi di divertimento, specialmente il Cinema Paradiso, sono pronti ad essere demoliti per fare spazio a nuove strutture che soddisfaranno le necessità della popolazione che abita ora nel paese. Quando si produce il ritorno, la nostalgia svanisce e diventa disincanto.
Contemporaneamente alla delusione dovuta alla mutazione del paesaggio, dello scenario del proprio passato, si acquisisce la coscienza di aver perduto l’identità e almeno una parte dei legami affettivi che uniscono l’immigrante alla sua terra natale. Per questo motivo, il protagonista di “Paso del Norte”, quando torna a casa pieno di tristezza, afferma che l’hanno ucciso, perchè tutte l’esperienze che ha sofferto nella strada percorsa hanno lacerato gli elementi costitutivi della sua personalità. Ora non ha un posto a cui ritornare, la sua casa è stata venduta, sua moglie l’ha abbandonato, e sembra essere destinato a vivere in forma erratica, senza la possibilità di recuperare –nel senso più rigoroso che ha la parola- tutto quel che ha avuto prima di andarsene. Da mettere in evidenza che questa tensione inevitabile non è presente unicamente nell’individuo che migra, ma va anche trasmessa a tutta la discendenza. In un modo o nell’altro, chi discende dal migrante sempre dovrà far fronte a tutti gli elementi della memoria, della cultura e la nostalgia dei genitori, e a le differenze tra quella e la cultura in cui si è nato, motivo per il quale è anche lui un migrante, senza aver vissuto nella propria carne gli effetti dello sradicamento. È comune, allora, che ci siano in lui segni della lingua dei genitori, che conosca le manifestazioni culturali e perfino che senta di avere la stessa necessità di simularle nel luogo in cui vive, anche se, come è stato già detto, queste simulazioni non sono mai completamente efficaci.
Quando si assume l’impossibilità del ritorno e si impara a vivere con i segni lasciati dal processo migratorio, si rinnova la nostalgia in tutti coloro che sono più sensibili e quello che si rimpiange diventa l’obiettivo prediletto della dialettica dell’individuo e delle manifestazioni artistiche che è capace di realizzare, un esempio di questo si può apprezzare quando il protagonista di Garabatos (1970), di Pedro Juan Soto, vuole ricreare tutte le scene della sua vita felice in un suo dipinto, che avrebbe “una malinconica somiglianza con quelle fotografie fatte nelle feste patronali (…) che erano parte dell’album  di ricordi della famiglia”, dedicato a sua moglie che, già consunta dal processo migratorio e di rottura, lo riceve come un’offesa e lo distrugge.
Per concludere, si può affermare che le migrazioni nell’attuale societá dell’informazione sono un evento quotidiano inevitabile e ineluttabile, promosso ad ogni livello dalla esistenza dei mezzi moderni di comunicazione, ma inoltre sono un fenomeno completamente irreversibile in quanto causa profonde fratture negli elementi costitutivi della vita di ogni essere umano che sono: la cultura, la lingua e la propria identità, non solo nell’individuo che migra ma in tutta la sua discendenza, poichè le rimanenze di quella memoria perduta vengono trasmesse alle diverse generazioni e integrate a nuovi sistemi di riferimento e meccanismi di controllo progettati per escludere e segnalare continuamente coloro che sono diversi. La differenza rispetto ad altre epoche radica nella tendenza posmodernista in cui questa alterità è capita come un arricchimento, come un fatto che si deve distaccare e deve essere presso in considerazione positivamente, non come un tabù sociale. Oggi gli invisibili sono meno, perché ci sono testimonianze delle loro vicende e le rappresentazioni artistiche, in ogni livello, li segnalano e gli danno una potente voce con la quale possono gridare al mondo che ci sono anche loro.

BIBLIOGRAFÍA


(1) Video Los Posmodernos (Filosofía Aquí y Ahora)” condotto dal filosofo argentino José Pablo Feinmann, disponibile su Youtube.

(2) Documentario Los Invisibles, 
Fatto da Amnistía Internacional, Gael García e MarSilver, pubblicato in 2010 su Youtube.


APPADURAI, A.; La Aldea Global


RIBEYRO, J., Los gallinazos sinplumas, 1955.  

RULFO, J., Paso del Norte, 1953. 

SOTO, P.; “Garabatos”, 1970. 

Film: Cinema Paradiso,  regia di Giuseppe Tornatore,1988, Italia.

Canzone: Pa’l Norte, Calle 13, 2007, Puerto Rico.

lunes, 8 de diciembre de 2014

Universalia n° 37 - Nuestros valores más preciados

El Número 37 de la Revista Universalia, publicación periódica realizada por el Decanato de Estudios Generales de la Universidad Simón Bolívar, están presentes las obras ganadoras del concurso "La escritura hecha en casa" en el año 2013.

Esta edición inicia con las palabras del Decano, Prof. Rubén Darío Jaimes, sobre la importancia de este concurso en la vida estudiantil de los uesebistas. Inmediatamente después, está el discurso "Artífices del Futuro", que ofrecí en ocasión de la premiación anual del concurso, en representación de los ganadores de la Edición 2012. Y es entonces cuando están los verdaderos protagonistas de la edición: los ganadores.

Siempre es una alegría darse cuenta de todo el talento y el potencial que está en nuestro campus. Felicitaciones a todos, una vez más. Especial mención a Ricardo Santos, ganador del "Segundo Serrano Poncela" con su texto "El poder del olvido", y Andrea Salcedo, ganadora del "Iraset Páez Urdaneta" con su selección de poemas, ambos buenos amigos con quienes he tenido la oportunidad de compartir este interés literario.

La revista aquí 

miércoles, 3 de diciembre de 2014

Propuesta de Lectura: "Continuidad de los Parques"

Esta fue la propuesta de lectura que presenté en la actividad “Cien años de… Cortázar” en sus tres ediciones (Junio 2014 para la Sede Sartenejas, la Sede Litoral, y Octubre 2014 para los estudiantes participantes en el programa PROACTIVA 2014, ofrecido por el Decanato de Estudios Generales de la Universidad Simón Bolívar). Un fragmento de la presentación puede observarse en este enlace.

Continuidad de los parques” es un relato publicado por primera vez en la segunda edición del libro Final del juego de Julio Cortázar, en 1964, y que, como tantos otros textos del autor, tiene una dimensión lúdica cuyo objetivo es convertir al lector en un partícipe más de la obra. De esta forma, las figuras del narrador omnisciente y del lector recipiente se hacen obsoletas y en cambio se abre una oportunidad para la metaficción, o lo que es lo mismo: la ficción se ofrece como un espacio para reflexionar sobre sí misma.

Una lectura – más extensa que la lectura literal- del relato permite establecer la siguiente secuencia de hechos:
(1)   Se describe al lector como un lector pasivo que “consume” la novela sin involucrarse en “el drama que también debería ser el suyo”, para él la lectura representa una alienación de su realidad y no una inscripción en una realidad nueva. El lector representado en la historia es uno que “no quiere problemas sino soluciones, o falsos problemas ajenos que le permiten sufrir cómodamente sentado en su sillón”.
(2)   Se pasa entonces a la escena de los amantes donde hay desorden, ya el escenario no es un parque (jardín ordenado) sino que ahora es naturaleza, es un “mundo de hojas secas y senderos furtivos”. Los adjetivos cambian (la comodidad, la seguridad de estar en una casa da paso a la zozobra, el relato toma un carácter más violento y emocional). En este punto intermedio, tanto el lector del relato como el lector representado dentro del mismo, pueden identificarse y sentir cierta empatía respecto a la historia amorosa, sin llegar a involucrarse de lleno en el texto.
(3)   Por último, tiene lugar la confrontación entre el lector-pasivo (cómodo, consumista, representado en la historia) y lector partícipe (amante apasionado, violento). El encuentro entre ambos planos y la insinuación de dos planos más (lector-real y autor por encima), la posibilidad de que todos pueden ser leídos, y se produce la identificación del lector-real con el lector-cuento.

El relato se interrumpe sin un final conclusivo. Al producirse la fusión de ambos planos, no hay quien lea la novela, pues el lector está a punto de ser apuñalado. Y si no hay quien la lea, no hay novela. Sin embargo, el lector-real sobreentiende lo que pasó. He aquí el logro de Cortázar con esta obra: el lector-real, consciente o –mejor aún- inconscientemente ha tomado parte del texto y le ha escrito, en su mente, un final.

Cortázar, entonces, convirtió al lector pasivo en un lector partícipe por medio de la confrontación. Por medio de la misma confrontación que representa escrita en el texto. Pero, por si eso fuese poco, también plantea –dentro y fuera del texto- la posibilidad de que la literatura sea capaz de enfrentarse y superponerse a la realidad, e incluso de “apuñalarla”, y hace que el lector se convierta en una pieza clave de su juego.

domingo, 19 de octubre de 2014

La migración: más allá de la cuestión geográfica

Esta entrada está conformada por las cuatro partes del Trabajo Final del curso Para leer la postmodernidad, a cargo de la Profa. Gina Saraceni (USB), y consiste en la exposición de la figura del migrante y del fenómeno migratorio en general desde una perspectiva artística (literaria-cinematográfica) y con referencias postmodernistas.
 
I - Para empezar
El modernismo filosófico acostumbró a la sociedad occidental a tener una visión teleológica sobre la vida, todo camino conduce a un único fin: la plenitud. Dicho nivel de satisfacción con el mundo exterior e interior es solo alcanzable a través de alguno de los grandes relatos, que según Jean-Francois Lyotard enLa posmodernidad (explicada a los niños) (1986) son los siguientes: el cristiano, el marxista, el iluminista y el capitalista. De acuerdo a cada uno de ellos, es a través de la buena fe, el bienestar común, la supremacía de la razón  o  del  trabajo,  que se puede  alcanzar  un  estatus  incomparable  de felicidad  y autorrealización.  Sin  embargo,  el  mismo  Lyotard, a como  el  filósofo  argentino  José Feinmann1 al utilizarlo como referencia, aluden al hecho de que esta perspectiva de la vidadirigida hacia un objetivo final, nac en el seno de las sociedades desarrolladas, es decir, en las comunidades poseedoras de la mayor cantidad de saberes y, por ende, con más poder entre las masas, por lo que no responden a la dinámica real de las relaciones humanas y causan  el  ocultamiento  de  las  particularidades,  las  deficiencias,  las  diferencias  y  las fracturas que habitan en esos espacios modernistas. Todo aquello que no se encuadre en los esquemas establecidos por el poder y sus diversos mecanismos de control era ignorado o apartado, tanto de las representaciones artísticas como de los estudios realizados por las distintas ramas del conocimiento.
En defensa de esa alteridad, de esa otra perspectiva posible, se plantea el posmodernismo,  pues  surge  la  necesidad  de  considerar  y  resaltar  la  existencia  de  lo diferente para contrarrestar la exclusión que existía. Para ello, la tendencia posmodernista apuesta por la multiplicidad de relatos en lugar del relato único o gran relato, y en algunos casos, por la deconstrucción del texto, e incluso de los esquemas de pensamiento, tal y como son conocidos. Feinmann hace referencia al rmino caleidoscopismo e ilustra esta forma ltiple de leer la historia citando a Gianni Vattimo, filósofo italiano, quien sostiene que la historia es como el dialecto”, en alusión a la existencia de múltiples dialectos en Italia, hecho del que se desprende la posibilidad de mirar desde varios ángulos la misma realidad y los hechos históricos. Ya no existe una forma única de narrar la historia, en su lugar hay un  multiculturalismo  muy notorio  que se convierte en  un  collage  de voces igualmente capacitadas para narrarla.
Entonces pues, resulta natural que en medio de la exaltación de todas las minorías históricamente ignoradas, se empiece a evidenciar la vida de todos quienes dejan de pertenecer a una sociedad establecida para integrarse en otra donde extrañamente lograrán alcanzar  un  verdadero  sentido  de  pertenencia:  los  migrantes.  Sea  por  razones  de colonización de los europeos, sea por la crisis económica provocada por los dos grandes conflictos mundiales, o incluso por el grado de desigualdad entre países del mismo continente, es acertado afirmar que Américay sobre todo América Latina- ha sido, por excelencia, el escenario predilecto del flujo migratorio en varios períodos de la era moderna y contemporánea, razón por la cual resulta interesante profundizar en este tema.
Más aún en esta época, donde los medios de comunicación y transporte masivo hacen de la migración y el desplazamiento fenómenos cotidianos y comunes, vale la pena reflexionar  sobre  el  proceso  de  abandono  de  la  propia  tierra,  las  fracturas  en  lo  más profundo  del  ser,  la  adaptación  y  la  nostalgia  que  caracterizan  a  estos  individuos  en continuo movimiento. En particular, resulta interesante profundizar en la irreversibilidad de dichos procesos y en las consecuencias que dejan en quien los sufre.
 

II - La ilusión de lo desconocido


"La realidad y la miseria me oprimen y, sin embargo, sueño todavía"

- Émile Zola



¿Qué situaciones o hechos pueden vencer el arraigo de un ser humano a su pueblo natal? ¿Tan fuertes pueden ser las adversidades que su propia tierra le presenta que le dan la capacidad de abandonar todo cuanto le es conocido para adentrarse en la búsqueda de un futuro más prometedor? Obviando los casos en los que el desplazamiento se produce como consecuencia del deseo de expandir las propias fronteras, sean estas intelectuales (en el caso de los estudiantes, profesores y profesionales que van a otro país de intercambio) o sean geográficas (deseo de los grandes emperadores y conquistadores de la historia), es una realidad innegable que la migración suele aparecer como opción viable cuando la vida, por diversas razones, se hace difícil en el lugar de nacimiento y existe el pensamiento, certero o infundado, de que en otro lugar se podría vivir en condiciones mejores.
En algunas ocasiones son las duras restricciones políticas, resultado de regímenes autoritarios y extremistas, las que, sin hacer caso de la protesta y de la manifestación cívica, originan el abandono de los libres –o los diferentes- hacia un lugar donde puedan vivir y expresarse mejor. La corrupción, el despilfarro de las autoridades y su complicidad con las organizaciones  criminales,  o  la  despreocupación  por  los  ciudadanos  comunes  pueden generar un sentimiento de abandono en los miembros de una sociedad determinada, causando que dejen de sentirse identificados con el ambiente que les rodea y decidan partir. Otras veces el movimiento obedece a las necesidades humanas más básicas: satisfacer el hambre propia y de la familia, mantenerse con vida y habitar en un sitio con las mínimas condiciones higiénicas para una subsistencia sana, que podrían no ser brindadas en un país azotado por catástrofes naturales, por duras crisis económicas o tras conflictos armados importantes.  Lo  cierto  es  que  enumerar  las  causas  que  llevan  a  un  ser  humano  a desprenderse de su tierra natal merecería un trato particular y mucho más desarrollado. Sin embargo, hay un elemento común en el imaginario de todo emigrante y es la imagen de que lo mejor está en otro sitio, de que las fuentes de trabajo, la comida, el dinero, la libertad y la independencia se encuentran allá, fuera de las propias fronteras y del propio alcance, y que por eso, por la sola idea de poder encontrarse frente a todas esas cosas positivas, vale la pena abandonarlo todo y partir.
El problema es que tan común como el fenómeno migratorio es la concepción vaga o errónea del lugar de destino, pues se origina en el individuo un sentimiento exagerado de que en ese otro sitio podrá vivir a plenitud, aún cuando no tenga más prueba de ello que el testimonio de un tercero que log regresar tras cumplir con sus metas. A menudo se desconoce, o se hace caso omiso, de las anécdotas desfavorables porque estas no alimentan la esperanza que representa la ilusión del otro lugar, no contribuyen con la imperiosa necesidad que tiene el marginado de creer en algo mejor a pesar de desconocerlo.
Un ejemplo de ello se puede apreciar en Paso del Norte (1953), de Juan Rulfo, cuando el protagonista le revela a su padre los motivos que le inducen a querer partir hacia el Norte:
Pos a ganar dinero. Ya ve usté, el Carmelo volvió rico, trajo hasta un gramófono y cobra la música a cinco centavos. De a parejo, desde un danzón hasta la Anderson esa que canta canciones tristes; de a todo, por igual, y gana su buen dinerito y hasta hacen cola pa oír. Así que usté ve; no hay más que ir y volver. Por eso me voy.
Otro ejemplo se encuentra en el documental Los Invisibles2, donde se le pregunta a una familia centroamericana cómo se imaginan ellos que son los Estados Unidos y ellos responden que la imagen que tienen es de una fotografía de cuando la niña de la casa estuvo de  vacaciones  en  Seaworld,  un  parque  acuático  donde  se  presentan  especculos  con delfines y ballenas, y esa imagen de lo que es bonito” y divertido” muchas veces basta para que tomen la decisión de desplazarse aún cuando esto implica muchas rupturas y fracturas no solo en aspectos fundamentales de la propia identidad sino también en la forma de entender y vivir la vida. La imaginación ha pasado a ser un hecho social y colectivo3, y ya no prevalece la realidad sobre el lugar de destino sino que la lógica cotidiana pasa a ser construida por todas esas esperanzas y relatos coloquiales de los conciudadanos también migrantes. Como dice Calle 13 en su canción Pal Norte, para un emigrante, el camino es lo de menos, lo importante es llegarlo.


  
III – Fisura, desgarro, fragmentación


(Irse) es un sueño de terror que convierte nuestras vidas en pesadillas, esa es una de las afirmaciones de los entrevistados en el documentalLos Invisibles, en la cual se evidencia la otra cara de la esperanza, la de las consecuencias duras e inhumanas. Antes de la partida, el individuo tiene sentimientos encontrados pues el abandono del hogar es tan relevante emocionalmente como la esperanza que significa el nuevo destino, pero, gracias a la inocencia que provoca la desinformación antes mencionada, es esta ilusión la que logra sobreponerse. El migrante parte sin brújula, sin tiempo, sin agenda, sin transporte y, en muchos de los casos, sin documentos que lo identifiquen y le den el estatus jurídico de ciudadano, o simplemente el de ser humano. Es entonces cuando comienza el proceso de desgarro de su propia humanidad, a través de la destrucción o la severa alteración de los elementos que la constituyen, a saber: la identidad, la cultura y la lengua.
El primero de esos componentes se modifica en la etapa del camino, del desplazamiento per se, pues como se evidencia en el documental antes citado, y en muchas otras representaciones artísticas y literarias como la canción de Calle 13 mencionada o el relato Paso del Norte de Juan Rulfo, el migrante ilegal se convierte en un intruso sin pasaporte, en un no identificado, un diferente que se asume delincuente, y entonces se ve sometido a la violencia no solo de los mecanismos de control del país destino, sino de las bandas criminales organizadas que aprovechan esta condición para hacer del migrante su víctima predilecta. Es perseguido, torturado, maltratado y hasta asesinado sin que quede rastro de ello, pues al haber perdido toda sujeción a una determinada nación por no tener documentos que lo acrediten como ciudadano, no existe un registro oficial donde esté inscrito: es invisible mientras está vivo, y es un desaparecido cuando muere. En el mejor de los casos, logra ponerse a resguardo de estas conductas hostiles a cambio de perder por completo su humanidad y servirse de medios absolutamente animales como deslizarse bajo la tierra como las ardillas- para pasar al otro lado de la frontera, sin saber lo que allí les espera. Un ejemplo de esto se encuentra en Los gallinazos sin plumas (1955) de Julio Ramón Riberyro, donde dos niños famélicos que han adquirido rasgos y actitudes animales debido a la dura crianza que han tenido, huyen heridos y enfermos hacia la gran mandíbula devoradora que es la ciudad de a, desconocida para ellos y donde ellos no existen.
Una  vez  atravesado  el  muro,  que  puede  ser  físico  o  meramente  simbólico,  se produce el choque cultural entre quien ha perdido su condición de ciudadano y la nueva sociedad con sus tradiciones y sus propios mecanismos de control, que naturalmente será reacia a aceptar al recién llegado. El inmigrante, aún ligado a la cultura de su tierra natal, se halla en desventaja con respecto a sus vecinos pues, al no tener espacios para ejercer sus costumbres y al estar adaptándose aún al nuevo lugar, no puede ser considerado miembro pleno de la comunidad en la que ahora se encuentra. Inicialmente es considerado como mano de obra y se le emplea para realizar los trabajos más pesados y peor remunerados, pues no tiene calificación legal alguna y su ausencia de identidad le impide reclamar por derechos que de otro modo sean los justos. Se produce el encuentro con otros inmigrantes y se establecen pequeños círculos donde se simulan algunos aspectos de la cultura perdida, por  lo  que  la  diferencia  existente  con  respecto  a  la  nueva  sociedad  nunca  logra  ser suprimida. El migrante funciona como una pieza insignificante dentro del gran mecanismo que representa la metrópolis que le sirve de destino, es reemplazable y, como el resto de quienes están en sus mismas condiciones, es irrelevante todo lo concerniente a su identidad.
Mientras la gran maquinaria siga funcionando, el grupo inmigrante solo constituye una masa indeterminada y dedicada enteramente al trabajo, se le supervisa (esa gente nunca le quita el ojo a uno en el trabajo) y se le reemplaza sin ningún tipo de reparos (“pusieron a otro en mi lugar para no parar el trabajo)  En La noche que volvimos a ser gente (1970)  de  José  Luis  González,  se  plantea  que  la  única  forma  en  la  que  los inmigrantes pueden recuperar su humanidad es a través de la falla de alguno de los mecanismos de la sociedad donde están inscritos; en ese caso, es la ausencia de energía ectrica lo que ocasiona la reunión de todos los puertorriqueños en los tejados de los edificios, de forma que estos vuelven a compartir su música, sus bebidas, la estadía con sus semejantes y vuelven a apreciar algo tan simple como las estrellas que brillan en el cielo, recuperando ala condición humana hasta entonces perdida.
Uno de los síntomas de este desmembramiento de la cultura y la identidad es la modificación de la lengua. El inmigrante, forzosamente, debe aprender a manejarse en los términos que utiliza la sociedad donde se encuentra, por lo que resulta natural que comiencen a existir lenguas híbridas como el spanglish, el itañol, entre muchas otras en las cuales  conviven  los  modos  gramaticales  y  las  palabras  de  la  lengua  nativa  con  los elementos de la nueva lengua. El migrante modifica su vocabulario y con ello su forma de describir y escribir el mundo se transforma completamente, pasa a ser una mezcla de culturas que, con el pasar del tiempo, será imposible de dividir en sus componentes originales.


  
IV – El imposible regreso y las marcas indelebles



"Es inútil volver sobre lo que ha sido y ya no es"

- Frédéric Chopin



La nostalgia es un sentimiento inevitable cuando se está lejos de la patria, por muchas simulaciones que puedan recrearse en los distintos lugares de tránsito donde el inmigrante se encuentre. El saberse rodeado de gente que ha compartido las mismas experiencias, que ha crecido en las mismas calles y comió la misma comida, el sentirse a proprio agio con las costumbres y los lugares comunes, es necesario para todo aquel que se ha alejado. El problema radica en que todos esos elementos anclados en el imaginario del migrante se modifican con el tiempo y el espacio recordado no se corresponde con el espacio existente en el momento de un eventual regreso, es decir, la ciudad en la que se nace no permanece inalterable en el tiempo, sino que se transforma con la construcción de nuevos edificios y vías, con la llegada de forasteros que implantan simulaciones de sus propias culturas en ella, y con las huellas de los altibajos políticos y económicos, que sin duda marcan hito en una población.
Entonces, ¿hasta qué punto es posible regresar al lugar de origen una vez abandonado? La evolución inexonerable de las sociedades hace que el deseo de regresar al lugar  perdido,  la  necesidad  de  sanar  la  orfandad  característica  de  la  migración,  sea imposible de alcanzar. En  la película  Cinema Paradiso  (1988), dirigida por Giuseppe Tornatore, se narra la historia de Totó, quien ha pasado treinta años fuera de Giancaldo (Sicilia), y recibe una llamada telefónica donde le informan que Alfredo, quien fuera su mentor, ha muerto. A lo largo del film se ve como el protagonista, a partir de la triste noticia, comienza a recorrer ese pueblo que conserva en su memoria, con las anécdotas que marcaron su vida y su relación con Alfredo, para luego volver y asistir al funeral, encontrándose con que Giancaldo ha cambiado dsticamente y que sus viejos lugares de esparcimiento, y en especial el Cinema Paradiso, están en proceso de demolición para dar paso a nuevas estructuras que satisfagan las necesidades de la sociedad que ahora vive en el pueblo.  Cuando  tiene  lugar  el  regreso,  la  nostalgia  se  desvanece  para  dar  paso  al desencanto.
Paralelamente a la desilusión por el “escenario” que ha mutado, se adquiere la conciencia de haber perdido la identidad y con ella parte de los vínculos afectivos  que unen al inmigrante con su tierra natal. Es por eso que el protagonista de Paso del Norte, al volver con la cabeza gacha a la casa del padre, afirma que lo mataron, porque todas las experiencias que ha sufrido en el camino han menoscabado los elementos constitutivos de su personalidad. Ya no tiene donde regresar, su casa ha sido vendida, su mujer lo ha abandonado, y ahora está destinado a vivir de forma errante, sin poder recuperar en el sentido más estricto de la palabra- todo lo que alguna vez tuvo. Cabe destacar que esta tensión inevitable no solo está presente en el sujeto que migra, sino que se transmiten todos esos elementos de la memoria, de la nostalgia, de la cultura original a toda la descendencia. De una u otra forma, la familia del inmigrante siempre tendrá que lidiar con las diferencias entre la cultura de sus progenitores y la cultura en la que ha nacido, es un migrante él también, sin haber vivido en carne propia los efectos del desplazamiento. Es común pues que tengan rasgos de la lengua nativa de sus padres, que conozcan sus manifestaciones culturales y que sientan la misma necesidad de simularlas en el lugar donde viven, aunque, como ya fue mencionado, estas simulaciones nunca son del todo efectivas.
Cuando se ha asumido la imposibilidad del regreso y se aprende a vivir con las marcas dejadas por el proceso migratorio, se renueva la nostalgia en quienes son más sensibles y lo añorado se convierte en el objeto predilecto de la dialéctica del sujeto y de las manifestaciones  artísticas  que  pudiera  realizar,  tal  y  como  se  observa  cuando  el protagonista de Garabatos (1970), de Pedro Juan Soto, quiere recrear todas esas escenas de su vida feliz pintando un cuadro, que tendríaun parecido melancólico a aquellas fotografías tomadas en las fiestas patronales () que formaban parte del álbum de recuerdos de la familia, en honor a su esposa, quien ya consumida por el proceso de migración y ruptura, lo recibe como un gesto ofensivo y lo destroza.
Se puede finalizar afirmando que las migraciones en la sociedad de la información actual son un asunto cotidiano inevitable e ineludible, que se ve propiciado a todo nivel por la existencia de medios de comunicación modernos, pero además son un fenómeno completamente irreversible por cuanto se traducen en profundas fracturas en los elementos constitutivos de la vida de todo ser humano que son: la cultura, la lengua y la propia identidad, no solo en el sujeto que migra sino en toda su descendencia, pues los remanentes de esa memoria se transmiten entre generaciones y se ven sujetos a nuevos sistemas de referencia con mecanismos de control diseñados para la exclusión y el señalamiento a quienes son diferentes. La divergencia con otras épocas radica en que la tendencia posmodernista suele ver esta alteridad como un enriquecimiento, como un hecho a resaltar y tomar en cuenta, y no más como un tabú social. Cada vez los invisibles son menos, porque hay testimonio sobre sus vivencias y las representaciones artísticas a cualquier nivel se esfuerzan en señalarlos y gritarle al mundo entero que están allí.

BIBLIOGRAFÍA CONSULTADA


(1) Vídeo Los Posmodernos (Filosofía Aquí y Ahora)” dividido en dos fragmentos y conducido por el filósofo argentino José Pablo Feinmann, disponible para consulta en Youtube.


(2) Documental Los Invisibles, realizado por Amnistía Internacional, Gael García y Marc
Silver, y publicado en 2010. Disponible para consulta en Youtube.


APPADURAI, A.; La Aldea Global, Secciones del libro "La modernidad descentrada", Fondo Cultura Económica, México. Versión digital disponible en: http://www.globalizacion.org/biblioteca/AppaduraiAldeaGlobal.htm


RIBEYRO, J., Los gallinazos sin plumas, 1955. Versión digital disponible en:


RULFO, J., Paso del Norte”, 1953. Versión digital disponible en:


SOTO, P.; “Garabatos”, 1970. Versión digital disponible en:


Trabajos Audiovisuales:


- Cinema Paradiso, Película de Giuseppe Tornatore,1988, Italia.
- Pa’l Norte, canción de Calle 13, 2007, Puerto Rico.