Nel mese di ottobre 2014, ho pubblicato la versione originale (in spagnolo) di questo lavoro. Ma, visto che la migrazione é un fenomeno che non può essere limitato né a una sola regione né a una sola lingua, ho voluto fare la traduzione in italiano. Anche perchè sono italo-venezuelano, e mi sembrava giusto poter condividere questo con i miei cari in Italia.
É un lavoro che ho fatto sul migrante come personaggio centrale del fenomeno migratorio, con riferenze artistiche (letterarie, cinematografiche), e posmoderne, nel corso "Para leer la postmodernidad", con la Prof. Gina Saraceni (USB).
I – Tanto per cominciare
La societá occidentale, con la filosofía del
modernismo, si abituó ad avere una visione teleologica della vita, ogni
sentiero porta alla pienezza come unica finalitá. Quel livello di
soddisfazione, tanto nell’ambito esterno quanto nell’interno dell’essere umano,
solo si puó raggiungere attraverso uno dei grandi
argomenti, che secondo Jean-François Lyotard in “Il postmodernismo (spiegato ai bambini)” (1986) sono: il cristiano,
il marxista, l’illuminista ed il capitalista. In modo conforme a ciascuna di
loro, é mediante la buona fede, il comune benessere, la supremazia dell’uso
della ragione o del lavoro, che si puó arrivare ad uno stato incomparabile di
felicitá e di giubilo con se stesso. Eppure,
lo stesso Lyotard, siccome il filosofo argentino José Feinmann1
quando utilizzano questo stato come riferimento, fanno allusione
al fatto che questo punto di vista sulla vita, condotta verso un obiettivo
finale, é nato nelle societá più sviluppate, nelle
comunitá che possiedono la maggioranza delle conoscenze e quindi con un grande
potere sulle masse, per quanto non risponde alla dinamica reale delle relazioni
umane e causa l’occultamento delle particolaritá, le carenze, le differenze e
le fratture che si manifestano negli spazi modernisti. Tutto quello che non si poteva
inquadrare negli schemi stabiliti dal potere e i suoi meccanismi di controllo
era tenuto da parte, tanto dalle rappresentazioni artistiche quanto dagli studi
realizzati dalle diverse aree della conoscenza.
In difesa di quella alteritá, di quell’altra prospettiva, nacque il
postmodernismo che sorge dalla necessitá di prendere in considerazione e di
risaltare l’esistenza di tutto quello che é diverso in contrapposizione
all’esclusione esistente. Per quello, la tendenza postmodernista propone la molteplicitá
di storie contro quell’argomento unico o grande
argomento, ed in alcuni casi, propone anche la decostruzione del testo,
perfino degli schemi del pensiero, tale come oggi sono conosciuti. Feinmann si riferisce al termine caleidoscopismo ed illustra
questa maniera di leggere la storia da angoli diversi citando Gianni Vattimo, filosofo italiano che afferma che “la storia é come il
dialetto”, in allusione all’esistenza di molti dialetti in Italia, fatto dal
quale viene fuori la possibilitá di guardare, e soprattutto di rappresentare,
la realtá stessa e gli stessi fatti della storia da diverse forme, da diversi
punti di vista. Non esiste piú
un’unica maniera di raccontare la storia, ora c’è una pluralitá di culture
abbastanza notoria, un collage formato da tutte quelle voci che sono ugualmente
capaci di raccontarla.
Allora, diventa naturale che in mezzo all’esaltazione
delle minoranze che storicamente non sono state riconosciute, si cominci a
mettere in evidenza la vita di tutti coloro che lasciano una loro societá
stabilita per incorporarsi ad un’altra dove stranamente riuscirano ad avere un
vero senso di appartenenza: i migranti. Sia come conseguenza della colonizzazione
europea, sia per la fortissima crisi economica provocata dalle due Guerre Mondiali,
o perfino per le note discordie tra i paesi dello stesso continente, é un fatto
che America –e soprattutto l’America
Latina- puó essere considerata, per eccellenza, il palcoscenico favorito degli
influssi migratori in vari periodi dell’era moderna e contemporanea, ragione
per cui é interessante approfondire in
situ su questo argomento.
In quest’epoca, in cui i mezzi di comunicazione e
trasporto fanno della migrazione un fenomeno comune e quotidiano, ha molto
senso riflettere sul processo di abbandonare la propria terra, sulle fratture
nella parte piú profonda dell’essere umano, sull’adattazione e la nostalgia che
si presentano negli individui in continuo movimento. Risulta particolarmente
interessante introdursi nel tessuto sociale, approfondire nell’irreversibilità,
di questi processi e le loro conseguenze che si manifestano in coloro che li
soffrono.
II – L’illusione
dello sconosciuto
"La realtá e la miseria mi
opprimono, eppure ancora sogno”
- Émile Zola
Che situazioni, che fatti,
possono vincere il legame di un essere umano col suo paese di nascita? Possono
essere cosí forti le avversitá che la propia terra presenta che si acquista la
capacitá di abbandonare tutto quanto si conosce per avventurarsi nella ricerca
di un futuro migliore? Ovviando i casi in cui lo spostamento é conseguenza del
Desiderio di espandere i propri limiti, siano questi intellettuali (caso di
professori, studenti e professionisti che partecipano in programmi di scambio
con altri paesi), ben siano politiche (desiderio dei grandi imperatori e
conquistatori della storia), è una realtà innegabile che la migrazione appare
di solito come l’unica scelta possibile quando la vita é troppo difficile nel
luogo di nascita ed esiste nel pensiero l’idea, fissa o come semplice ipotesi,
che in un altro luogo si potrebbe vivere meglio.
Alcune volte le durissime limitazioni politiche,
proprie di regimi autoritari ed estremisti, sono quelle che, ignorando le
proteste e manifestazioni pacifiche di resistenza civile, causano la partenza
dei liberi –i diversi- finché arrivano in un posto dove possono vivere ed
esprimersi completamente. La corruzione, lo scialo delle autoritá e la loro
complicità con i criminali organizzati, o la noncuranza dei cittadini comuni
possono generare sensazione di abbandono, di solitudine, nei membri di una
determinata società, motivo per il quale si sentono estranei al loro intorno e
decidono di andarsene. Altre volte lo sradicamento obbedisce alle necessità più
basiche dell’essere umano: soddisfare della propria fame e quella della
famiglia, sopravvivere ed abitare in un posto con le minime condizioni
igieniche, che potrebbero essere introvabili in un paese vittima di disastri
naturali, di periodi di grande crisi economica o di conflitti armati
importanti. Quello che é certo é che elencare le cause che portano una persona
ad allontanarsi dal proprio paese meriterebbe un trattamento particolare, più
dettagliato, complesso e quindi, più sviluppato. Eppure si puó distinguere un
elemento comune nello spirito, nel pensiero, di ogni emigrante e non é altro
che l’idea del meglio in un’altra
parte, del lavoro per tutti, i buoni cibi, il denaro, la libertà e
l’indipendenza sono tutti riuniti al di lá, fuori dalle proprie frontiere e mai
a portata di mano, per quanto, la sola idea di potersi incontrare di fronte a
tutte queste buone cose, giustifica il fatto di abbandonare tutto quanto é
conosciuto, parte della propria vita, per partire.
Il problema viene quando tanto comune é il fenomeno
migratorio quanto vaga e sbagliata la concezione del luogo di destino, poiché
si origina nell’individuo una aspettativa esagerata, quel posto nuovo sará il posto dove potrá vivere
pienamente, anche se l’unico indizio per pensarla così é la testimonianza di un
terzo che é tornato dopo aver raggiunto i suoi obiettivi. Spesso i racconti
sfavorevoli sono sconosciuti, disprezzati ed omessi, perchè questi non nutrono
la speranza che rappresenta l’illusione dell’altro luogo, non contribuiscono
con il grave bisogno che ogni marginato ha di credere in un mondo migliore, malgrado
non lo conosca.
Quando il protagonista di Paso del Norte (1953), di
Juan Rulfo, rivela a suo padre i motivi che lo inducono a cercare il Nord:
“Pos a ganar
dinero. Ya ve usté, el
Carmelo volvió rico,
trajo hasta un gramófono y cobra la música a cinco centavos.
De a parejo, desde
un danzón hasta la Anderson esa que
canta canciones tristes; de
a todo, por igual, y gana su buen dinerito y hasta hacen cola pa
oír. Así que usté ve; no hay más
que ir y volver. Por eso me voy.”(A)
Un altro esempio si trova nel documentario “Los Invisibles”2, dove si domanda a una famiglia
dell’America centrale come credono loro che siano gli Stati Uniti e rispondono
che la loro immagine di questo paese é quella di una fotografía del momento
quando la bambina della casa é andata in vacanze a Seaworld, un parco acquatico in cui si rappresentano spettacoli con
i delfini e le balene, e quella immagine del “bello” e del “divertente” molte
volte basta perché la decisione di trasferirsi sia presa, anche se coinvolge
delle rotture e fratture non solo negli aspetti fondamentali della propria
identitá ma nella maniera di capire e vivere la vita. “L’immaginazione é diventata un fatto sociale e collettivo” 3, e non prevale
piú la realtá sul luogo di destino ma quella logica quotidiana, basata su tutte
le speranze e racconti colloquiali dei concittadini anche loro migranti. Come
dice il complesso Calle 13 nella sua canzone “Pa’l Norte”, per un emigrante, “el
camino es lo de menos, lo importante es llegarlo” (B).
III – Fisura, strappamento,
frammentazione
“(Andarsene) é
un sogno di terrore che converte le nostre vite in incubi”, é una
delle affermazioni degli intervistati nel documentario “Los Invisibles”, in cui
si evidenzia l’altra faccia della speranza: quella delle dure e disumane
conseguenze. Prima della partenza, l’individuo ha sentimenti a confronto dato
che l’abbandono della propria casa è tanto rilevante dal punto di vista emotivo
quanto la speranza che incarna il luogo di destino, peró, grazie all’innocenza
causata dalla disinformazione summenzionata, è che questa illusione riesce a
sovrapporsi. Il migrante parte “senza
bussola, senza tempo, senza agenda, senza trasporto” e, frequentemente,
senza documenti che lo identifichino e gli diano lo status giuridico di
cittadino, o semplicemente quello di essere umano. È allora quando il processo di sradicamento della sua umanitá,
attraverso la distruzione o la severa alterazione degli elementi che la
costituiscono, cioé: l’identità, la cultura e la lingua.
Nella fase dello spostamento per se, in quanto prima fase del proceso migratorio, è che si
modifica l’identità dato che, come si puó vedere nel documentario sopraccittato
ed in tante altre rappresentazioni artistiche di ogni livello come la canzone
del gruppo Calle 13 o il racconto “Paso
del Norte”, il migrante illegale diventa un intruso senza passaporto, un non identificato, un diverso che si presume delinquente, e
quindi si trova sottomesso alla violenza non solo dei meccanismi di controllo
del paese di destino, ma delle bande criminali organizzate che si approfittano
di questa condizione e identificano nel migrante la loro vittima prediletta. È
perseguitato, torturato, maltrattato, e perfino assassinato senza che rimanga di
lui alcuna traccia, visto che non existe un elenco ufficiale dove sia iscritto
dopo aver perduto qualsiasi soggezione di una determinata nazione per non avere
dei documenti che lo identifichino come cittadino, dunque: è invisibile mentre
vive, ed è uno scomparso, un mancante, quando muore. Nel migliore dei casi,
riesce a mettersi in salvo da questi comportamenti ostili in cambio di perdere
completamente la sua umanitá e servirsi di mezzi assolutamente disumani,
animaleschi – come muoversi di nascosto sotto terra come gli scoiattoli- per andare all’altra parte della frontiera,
senza sapere nemmeno cosa l’aspetta. Un esempio di questo si trova nel racconto
“Los gallinazos sin plumas” (1995) di
Julio Ramón Ribeyro, nel quale due bambini famelici che hanno acquisito
atteggiamenti animaleschi dovuti alle condizioni in cui sono stati cresciuti,
fuggono feriti e malati alla grande mascella divoratrice che è la città nel giorno, sconosciuta da loro
e dove loro non esistono.
Attraversato il muro, sia fisico o simbolico, si produce
lo scontro culturale tra chi ha perduto la sua condizione di cittadino e la
nuova società con le sue tradizioni e i suoi propri mecanismi di controllo, che
naturalmente sará riluttante ad accettarlo appena arrivato. L’immigrante,
ancora legato alla cultura della sua terra natale, é in svantaggio rispetto ai
suoi vicini dato che, non avendo modo di esercitare i suoi costumi e tentando
ancora di adattarsi al nuovo luogo, non puó essere considerato membro di pieno
diritto nella communitá in cui ora si
trova. Inizialmente viene considerato manodopera –a buon mercato- e assunto per
fare i lavori più pesanti e peggio retribuiti perchè non ha nessuna
qualificazione legale e la sua assenza d’identitá gli impedisce richiedere i
suoi diritti che d’altra forma sarebbero giusti. Si produce l’incontro con
altri inmigrati e si stabiliscono piccoli circoli dove si simulano alcuni
aspetti della cultura perduta, motivo per il quale non si riesce ad eliminare
mai la differenza che esiste rispetto alla nuova società. Il migrante funziona
come un pezzo insignificante dentro il gran mecanismo che rappresenta la
metropoli di destino, é sostituibile e, come il resto di coloro che sono nelle sue
stesse condizioni, é irrilevante tutto quello che riguarda la sua identità.
Mentre il gran macchinario continui a funzionare, il
gruppo inmigrante solo costituisce una massa indeterminata e dedicata
interamente al lavoro, che viene monitorata (“quella gente mai la smette di guardarci nel lavoro”) e sostituita
senza alcun riparo (“hanno messo un altro
nel mio posto per non fermare il lavoro”), entrambe le frasi tratte da “La noche que volvimos a ser gente”
(1970) di José Luis González, dove si esprime l’idea che l’unica forma in cui
gli inmigrati possono recuperare la loro umanità è attraverso il fallimento di qualcuno
dei meccanismi della società dove sono iscritti; in quel caso, è l’assenza di
energia elettrica quello che occasiona la riunione di tutti i portoricani sui
tetti degli edifici, in modo che questi possono ricondividere la loro música,
le loro bibite, il fatto di essere insieme coi loro paesani e possono
apprezzare insieme una cosa tanto semplice come guardare le stelle che brillano
nel cielo, recuperando cosí la loro condizione umana che avevano già perduto, o
che li era stata tolta.
Uno dei sintomi di questo smembramento della cultura e
l’identità è la modificazione della lingua. L’immigrante, forzosamente, deve
imparare ad esprimersi nei termini che utilizza la società dove si trova,
perciò risulta naturale che nascano delle lingue ibride come lo spanglish, l’itañol, fra tante altre in cui coesistono i modi grammaticali e le
parole della lingua materna con gli elementi della nuova lingua. Il migrante
modifica il suo lessico e con questo fatto la sua forma di descrivere e di
scrivere il mondo si trasforma completamente, passa dall’essere una mescolanza
di culture che, col tempo, sarà impossibile dividere nei suoi componenti
originali.
IV – Il ritorno
impossibile e i segni indelebili
"È inutile rinvenire su ciò che si è stato e non si è più "
- Frédéric Chopin
La nostalgia è un sentimento inevitabile quando si è lontano dalla propria
patria, al di sopra di tutte le simulazioni che possano ricrearsi nei diversi
luoghi di transito dove l’immigrante si trovi. Il fatto di sapersi circondato
da gente che ha condiviso le stesse esperienze, che è stata cresciuta nelle
stesse strade e che ha mangiato gli stessi cibi, il fatto di essere a proprio
agio coi costumi ed i luoghi comuni, è necessario per colui che si è
allontanato. Il problema è che tutti quegli elementi ancorati allo spirito del
migrante si modificano con il tempo e lo spazio ricordato non corresponde con
lo spazio esistente nel momento di un eventuale ritorno, cioè, la città in cui
si è nati non rimane inalterata col passare degli anni, ma si trasforma
continuamente con la costruzione di nuovi edifici e percorsi, con l’arrivo di
estranei che impostano simulazioni delle loro proprie culture dappertutto, e
con le impronte degli episodi alti e bassi sia in politica che in economia, che
senza dubbio lasciano profondi segni in ogni popolo.
Allora, fino che
punto è possibile ritornare al paese d’origine una volta che si è andati via? L’evoluzione
inesorabile delle società fa che il desiderio di tornare alla terra perduta, la
necessità di sanare la condizione di orfano caratteristica dei migranti, sia
irraggiungibile. Nel film Nuovo Cinema Paradiso (1988), regia di Giuseppe
Tornatore, si racconta la storia di Totò, che se n’è andato da trent’anni da
Giancaldo (Sicilia), e riceve via telefonica la triste notizia della morte di
Alfredo, chi era stato il suo mentore. Lungo questo film, il protagonista, dopo
aver finito la funesta telefonata, comincia a percorrere il paese che conserva
nella sua memoria, con gli aneddoti che hanno scandito la sua vita e il suo
legame con Alfredo, per poi decidere di ritornare ed assistere al funerale,
trovandosi di fronte a un Giancaldo che è drasticamente cambiato rispetto a
quello dei suoi ricordi, in cui gli antichi luoghi di divertimento,
specialmente il Cinema Paradiso, sono pronti ad essere demoliti per fare spazio
a nuove strutture che soddisfaranno le necessità della popolazione che abita
ora nel paese. Quando si produce il ritorno, la nostalgia svanisce e diventa
disincanto.
Contemporaneamente alla delusione dovuta alla mutazione del paesaggio, dello
scenario del proprio passato, si acquisisce la coscienza di aver perduto
l’identità e almeno una parte dei legami affettivi che uniscono l’immigrante alla
sua terra natale. Per questo motivo, il protagonista di “Paso del Norte”, quando torna a casa pieno di tristezza, afferma
che l’hanno ucciso, perchè tutte
l’esperienze che ha sofferto nella strada percorsa hanno lacerato gli elementi
costitutivi della sua personalità. Ora non ha un posto a cui ritornare, la sua
casa è stata venduta, sua moglie l’ha abbandonato, e sembra essere destinato a
vivere in forma erratica, senza la possibilità di recuperare –nel senso più
rigoroso che ha la parola- tutto quel che ha avuto prima di andarsene. Da
mettere in evidenza che questa tensione inevitabile non è presente unicamente
nell’individuo che migra, ma va anche trasmessa a tutta la discendenza. In un
modo o nell’altro, chi discende dal migrante sempre dovrà far fronte a tutti
gli elementi della memoria, della cultura e la nostalgia dei genitori, e a le
differenze tra quella e la cultura in cui si è nato, motivo per il quale è
anche lui un migrante, senza aver vissuto nella propria carne gli effetti dello
sradicamento. È comune, allora, che ci siano in lui segni della lingua dei
genitori, che conosca le manifestazioni culturali e perfino che senta di avere
la stessa necessità di simularle nel luogo in cui vive, anche se, come è stato
già detto, queste simulazioni non sono mai completamente efficaci.
Quando si assume
l’impossibilità del ritorno e si impara a vivere con i segni lasciati dal
processo migratorio, si rinnova la nostalgia in tutti coloro che sono più
sensibili e quello che si rimpiange diventa l’obiettivo prediletto della
dialettica dell’individuo e delle manifestazioni artistiche che è capace di
realizzare, un esempio di questo si può apprezzare quando il protagonista di Garabatos (1970), di Pedro Juan Soto,
vuole ricreare tutte le scene della sua vita felice in un suo dipinto, che
avrebbe “una malinconica somiglianza con
quelle fotografie fatte nelle feste patronali (…) che erano parte
dell’album di ricordi della famiglia”,
dedicato a sua moglie che, già consunta dal processo migratorio e di rottura,
lo riceve come un’offesa e lo distrugge.
Per concludere, si può affermare che le migrazioni nell’attuale societá
dell’informazione sono un evento quotidiano inevitabile e ineluttabile,
promosso ad ogni livello dalla esistenza dei mezzi moderni di comunicazione, ma
inoltre sono un fenomeno completamente irreversibile in quanto causa profonde
fratture negli elementi costitutivi della vita di ogni essere umano che sono:
la cultura, la lingua e la propria identità, non solo nell’individuo che migra
ma in tutta la sua discendenza, poichè le rimanenze di quella memoria perduta vengono
trasmesse alle diverse generazioni e integrate a nuovi sistemi di riferimento e
meccanismi di controllo progettati per escludere e segnalare continuamente
coloro che sono diversi. La differenza rispetto ad altre epoche radica nella
tendenza posmodernista in cui questa alterità è capita come un arricchimento,
come un fatto che si deve distaccare e deve essere presso in considerazione
positivamente, non come un tabù sociale. Oggi gli invisibili sono meno, perché
ci sono testimonianze delle loro vicende e le rappresentazioni artistiche, in
ogni livello, li segnalano e gli danno una potente voce con la quale possono
gridare al mondo che ci sono anche loro.
BIBLIOGRAFÍA
(1) Video “Los Posmodernos (Filosofía Aquí y Ahora)” condotto dal filosofo
argentino José
Pablo Feinmann, disponibile su Youtube.
(2) Documentario “Los Invisibles”,
Fatto da Amnistía Internacional, Gael García e Marc Silver, pubblicato in 2010 su Youtube.
Film: Cinema Paradiso,
regia di Giuseppe Tornatore,1988,
Italia.
Canzone: Pa’l Norte,
Calle 13, 2007, Puerto Rico.